
Si narra che ogni teschio, se picchiettato a dovere, produca un suono diverso. Alle orecchie dei profani, quel rumore non è altro che l’onda sonora prodotta da un corpo cavo che viene colpito con la punta o le nocche delle dita. Per Vangisa, invece, il suono apparteneva al proprietario del cranio e in qualche modo ne annunciava il futuro.
Vangisa era un brahmano, un sacerdote indiano famoso per la sua veggenza. Egli si spostava di villaggio in villaggio per offrire i propri servigi a chi li richiedeva, in cambio di dieci, venti o cento monete, a seconda della disponibilità di ciascuno. Seguito da alcuni aiutanti, Vangisa si faceva consegnare il teschio del defunto, bussava piano con le dita sulla scatola cranica e, dopo qualche istante, comunicava ai parenti dove fosse finito il defunto. O meglio, dove fosse rinato. Le opzioni erano quattro: inferno, mondo animale, mondo umano e mondo divino.
La storia di Vangisa è giunta fino a noi grazie ai testi buddhisti e alle raffigurazioni artistiche, in particolare alcuni rilievi provenienti dall’antica regione del Gandhara (corrispondente, grosso modo, a un’area oggi compresa tra l’Afghanistan orientale e il Pakistan settentrionale). Le scene rappresentate sui rilievi gandharici, infatti, presentano il Buddha attorniato da alcuni personaggi, tra i quali spicca un uomo che tiene in mano un teschio; Vangisa, appunto.



La vicenda è assai semplice. Giunto nei pressi del monastero di Jetavana, il gruppo di Vangisa si accorse che vi era un gran fermento e, chieste spiegazioni ad alcune persone di passaggio, fu risposto loro che erano dirette al monastero per ascoltare la legge direttamente dalla voce del Maestro. Gli aiutanti di Vangisa risposero che non vi era persona più saggia del loro compagno, poiché egli era in grado di dire in chi o cosa si fosse reincarnato un defunto. «Cosa volete che ne sappia Vangisa?», risposero quelli. Gli animi si scaldarono e si giunse a un compromesso solo quando qualcuno propose di mettere alla prova Vangisa, per determinare una volta per tutte se fosse più o meno saggio del Maestro ospitato nel monastero.
Il Maestro non era altri che Siddhartha, il Buddha. Venuto a sapere che Vangisa e i suoi stavano arrivando, chiese ai monaci di disporre quattro teschi su un tavolo, uno per ogni stato dell’esistenza. Vangisa fu accolto dai monaci e il Buddha gli chiese se fosse proprio lui il saggio in grado di stabilire in quale stato dell’esistenza fosse rinato il morto, semplicemente ascoltando il suono prodotto dal teschio. Vangisa rispose di sì e il Buddha gli chiese di fare il proprio lavoro sui teschi disposti sul tavolo.
Vangisa fece suonare il primo teschio con le dita, poi disse al Buddha: «Questo è il teschio di un uomo che è rinato all’inferno.» Il Buddha fece un cenno di assenso e lo invitò a continuare. Vangisa fece suonare gli altri teschi, uno dopo l’altro. E, uno dopo l’altro, ne indovinò lo stato. Gli aiutanti del brahmano sorrisero soddisfatti. Allora il Buddha si alzò, fece comparire un quinto teschio dalle pieghe del mantello e lo posò tra le mani di Vangisa. «E questo?»
Vangisa provò a far suonare il quinto teschio, ma il rumore prodotto dalle dita era nuovo alle sue orecchie. Per la prima volta in vita sua, egli non fu in grado di fornire una risposta. Confessò quindi di non conoscere la destinazione del defunto. «Lo so», rispose il Buddha, «so che non lo sai.» Vangisa chiese di poter apprendere la risposta, ma il Buddha fu irremovibile: non avrebbe potuto insegnare nulla a chi non fosse monaco.
La storia termina con Vangisa che si volta verso i suoi e dice loro di andare via, perché ha tutta l’intenzione di farsi monaco. Così accadde che il Buddha lo istruì e Vangisa venne a conoscenza del quinto stato, quello in cui si trovava il proprietario del teschio che il brahmano non era riuscito a divinare. La morale è che non vi è alcuno stato per chi si sottrae al ciclo delle rinascite: il quinto teschio, infatti, apparteneva a un uomo simile al Buddha, qualcuno che aveva raggiunto la conoscenza, abbracciando la grande morte e fregando il samsara. Vangisa probabilmente pensò che il Maestro lo avesse preso un po’ in giro e ne ebbe la conferma quando lo vide lì, seduto per terra, con un sorriso beato sul volto.

Così del bussatore di teschi non rimane che la leggenda tramutatasi in pietra. Vangisa è rappresentato sempre accanto al Buddha (a volte in compagnia di altre figure), con in mano un teschio, colto nell’atto di picchiettare il cranio con le dita o con la mano destra sollevata in un gesto tipicamente italiano il cui significato è pressappoco di perplessità. Che si tratti di eredità mediterranea nelle lontane terre d’Asia o di una gestualità tipicamente locale o indiana non vi è certezza. Molto probabilmente, però, il significato andrebbe comparato piuttosto con un gesto indiano molto simile che viene utilizzato quando un personaggio bisbiglia o mormora qualcosa. Vangisa è ancora lì, accanto al Buddha, a ripetere antiche formule magiche in un continuo mormorio, ma con una consapevolezza nuova: i suoni sconosciuti prodotti dai teschi provengono da chi non ha più un filo di vita in corpo. Essi appartengono ai Buddha, i risvegliati.
Bibliografia
- «The Story of the Buddha and the Skull-Tapper. A Note in Gandharan Iconography» In: Taddei, Maurizio. 2003. On Gandhāra: Collected Articles. Edited by Giovanni Verardi and Anna Filigenzi. Napoli: 189-218.
- «Addenda to “The Story of the Buddha and the Skull-Tapper“» In: Taddei, Maurizio. 2003. On Gandhāra: Collected Articles. Edited by Giovanni Verardi and Anna Filigenzi. Napoli: 219-228.