
Ricordo bene Angelica Cucumazzo. Gli occhi verdi e la risata sibilante. Era amica di una mia amica e come lei studiava farmacia. Si era trasferita in città due anni prima. Ci conoscemmo in occasione di uno di quegli aperitivi infiniti che si celebravano tutti i fine settimana in piazza San Domenico Maggiore e finivano invariabilmente in nuovi amori e qualche antipatia.
Quando seppe che scrivevo – il mio successo era ancora piuttosto modesto, ma si poteva già dire che lo facessi di mestiere – mi rivelò in un sospiro che anche a lei sarebbe piaciuto, che l’università era per fare contenti i genitori, che credeva fosse l’arte la sua strada ma aveva tanta paura di non farcela. Potei solo risponderle che la capivo, per quanto in cuor mio sentissi di aver superato quel tipo di preoccupazioni considerandole ormai banali. Lei non percepì la mia arroganza e fu molto grata di quel poco conforto.
Prendemmo l’abitudine di vederci per un caffè: Angelica mi mostrava le sue ultime timide fatiche e io mi prestavo a una lettura attenta e ingiustificatamente entusiasta. Poi la riaccompagnavo a casa, nella speranza mai esaudita che mi invitasse a salire. Divideva un appartamento nei pressi di piazza Dante con due studentesse spagnole, ed era alla loro invadente presenza che ascriveva l’impossibilità di lasciarmi varcare la soglia dello scalcinato portone di ferro di fronte al quale moriva ogni nostro incontro, degno ai miei occhi più di sbarrare l’ingresso a una cantina polverosa che al nido di quella ragazza così elegante. L’unica consolazione era allora trattenersi a rovistare insieme tra le bancarelle delle librerie dell’usato di Port’Alba, discutendo a lungo di ciò che ci piaceva o meno, di ciò che cercavamo di evitare o capire, e regalandoci a vicenda i libri che attiravano la nostra attenzione.
Fu proprio durante una di queste perlustrazioni che mi capitò tra le mani Binturong. La copertina di un rosso acceso e lo strano animale nero che sembrava volerne saltare fuori mi convinsero immediatamente ad acquistarlo; tuttavia non conoscevo l’autore e inoltre la casa editrice non mi ispirava alcuna fiducia. Così, quando Angelica mi disse quanto le sembrasse bello, preferii donarglielo, pensando che, nell’improbabile caso valesse la pena leggerlo, avrei sempre potuto farmelo prestare.
Me ne dimenticai presto. Anche Angelica dovette abbandonarlo in una di quelle altissime pile di libri che finiscono per diventare quasi parte dell’arredamento, perché non lo nominò più. La stessa Angelica finì per occupare per me uno spazio simile: mi stavo infatti arrendendo all’idea che difficilmente il nostro rapporto sarebbe cambiato, avendo ormai assunto le pallide tinte dell’abitudine. La rassegnazione fu agevolata dall’arrivo dell’estate. I nostri incontri erano infatti divenuti più sporadici: col caldo soffocante di agosto e l’invasione dei turisti la città era diventata invivibile, così me ne stavo il più possibile chiuso in casa a scrivere; Angelica decise invece di trascorrere qualche settimana dai suoi genitori, a Bari.
Fu al suo rientro che mi rammentò di Binturong. Mi telefonò per dirmi che lo aveva finalmente letto e amato moltissimo, e che non sapeva come ringraziarmi per quel regalo magnifico; ci teneva a rivedermi il prima possibile e offrirmi quantomeno una cena. Ovviamente la accontentai la sera stessa, ma le aspettative che mi si erano gonfiate in petto nel sentirla tanto commossa furono altrettanto sollecitamente deluse: non fece che parlarmi di Binturong, di quanto fosse impensabile che un libro così fosse andato dimenticato – non esisteva forse alcuna giustizia nell’arte? – e insistere che lo leggessi anch’io, perché era stupendo e sincero e a suo modo innovativo, perché tra le sue pagine non si paragonava l’animale all’uomo o l’uomo all’animale, ma si lasciava ogni cosa libera di essere ciò che era; finito di mangiare la pizza, mi confessò ancora più vergognosamente del solito che aveva anche dei nuovi testi da sottopormi. Pur di non parlare più di Binturong decisi di leggerli subito, e per la prima volta il mio entusiasmo per la sua scrittura fu genuino.
Angelica dovette accorgersene, perché mi chiese cosa potesse farne dei racconti, con una risolutezza che non le avevo mai conosciuto. Le suggerii quindi un editore di mia conoscenza, che gestiva anche una rivista letteraria a cui quei suoi testi si accordavano più che bene. Il mio giudizio si rivelò corretto e tre delle sue storie furono pubblicate tra ottobre e dicembre, con grande gioia di Angelica. Ciò che invece non mi aspettavo fu che l’editore a cui l’avevo raccomandata le proponesse di pubblicare una raccolta di racconti. Angelica me lo annunciò quasi piangendo dalla gioia, gettandomi le braccia al collo e baciandomi le guance con tenerezza. Mi ringraziò cento volte, dicendo che era tutto merito del mio aiuto, che il libro sarebbe stato dedicato a me e che avrebbe chiesto all’editore se non fosse possibile affidare a me la prefazione; cosa, peraltro, che purtroppo si rivelò impossibile.
Nei mesi seguenti continuammo a vederci come avevamo sempre fatto. Leggevamo ancora i suoi lavori, ma era adesso molto meno pronta ad accogliere i miei giudizi, che del resto riguardavano ormai semplici minuzie. Non mi spiegavo come potesse essere migliorata tanto e tanto in fretta. Maturò in me un’idea: che stesse plagiando Binturong? Non che la ritenessi capace di compiere volontariamente un atto tanto meschino, ma i principianti sono per loro natura impressionabili e poteva benissimo darsi che imitasse quel libro che tanto amava in modo del tutto inconscio. Data la scarsa fama dell’opera nessuno avrebbe potuto accorgersene, nemmeno il suo editore.
Le domandai più volte il libro in prestito, ma prima mi disse di non avere idea di dove lo avesse lasciato, poi di aver sentito sua madre che le aveva detto che sì, aveva proprio dimenticato quel libro a Bari. Non riuscivo a credere che potesse separarsi così alla leggera da quel libro di cui si era detta tanto innamorata. Allora le chiesi di farmelo spedire, ma rispose scocciata che le pesava disturbare i suoi genitori e che avrebbe avuto cura di portarlo con sé la prossima volta che sarebbe ritornata dalla Puglia, promesso. Di nuovo non riuscii a crederle.
Decisi di verificare di persona: sarei entrato in casa sua, avrei trovato il libro e in quel modo ottenuto la prova della sua scorrettezza. Così una sera di marzo l’accompagnai come sempre fino al vecchio cancello, cui mi appoggiai leggermente per impedire che si chiudesse del tutto; seguii i passi di Angelica lungo le scale, il tintinnio delle chiavi e il cigolio dei cardini. Mi precipitai verso la porta e riuscii a spalancarla e a entrare.
Di lei, però, nessuna traccia. Pensai che si fosse spaventata per la mia violenta irruzione e fosse corsa a nascondersi. La chiamai piano, tentando di giustificare l’intrusione dicendole che stavo molto male e avevo bisogno del suo aiuto. Non ottenni risposta. Perlustrai l’intero appartamento senza trovarla. Anche delle coinquiline spagnole non c’era traccia: la camera che doveva essere la loro – più ampia di quella dove i vestiti della mia amica giacevano sparsi un po’ ovunque – era spoglia e impolverata.
Trovai Binturong nascosto sotto il letto di Angelica. Non riuscii a trattenere le lacrime, perché potevo finalmente essere certo delle sue menzogne. Iniziai a sfogliare le pagine del libro, ma mi accorsi con orrore che erano divenute illeggibili, coperte di una strana patina rossa, come di ruggine. Sentii un brivido: un’ombra mi scrutava dalla finestra scura. Pensando fosse Angelica mi ci avvicinai di un passo, ma non fu il bel viso della ragazza che vidi: oltre il vetro riconobbi l’orrenda scimmia di latta dei suoi racconti. L’animale lanciò uno strillo agghiacciante e mi si avventò contro. Mi precipitai nel corridoio. Dal bagno si trascinava ansimando il dinosauro zoppo del primissimo testo che Angelica mi aveva sottoposto, mentre dalla cucina ruggivano i ventidue leoni di cui avevo letto solo poche ore prima. Scappai per un tempo che mi parve contemporaneamente lunghissimo e immobile, popolato da tutti i mostri nati dalla penna di Angelica: le aquile dalla testa di fulmine, le tre donne di Boscomare, Operk e Unc, gli zombie di Ragusa, la lumaca con cento occhi, il mandarino alieno e tutti gli altri. Urlai e piansi, finché non mi ritrovai in un campo desolato, buio e silenzioso. Solo allora mi sentii salvo.
Non ho mai compreso gli avvenimenti di quella sera. La realtà mi appare da allora traballante, fragile, come se il mondo fosse perennemente sul punto di crepare. Quel che è certo è che non rividi mai più Angelica Cucumazzo. Smise di rispondere alle mie telefonate e di raggiungermi al bar. Pensai che mi stesse evitando, ma parlandone con le nostre conoscenze comuni mi resi conto che nessuno sapeva più dove fosse. Nemmeno l’editore, che pure aveva tentato di contattarla in tutti i modi e che si vide costretto a cancellare la pubblicazione. Ci fu un’indagine, ma venne presto archiviata. Gli inquirenti bollarono la sua sparizione come allontanamento volontario.
Con lei scomparve Binturong. Ero certo di aver portato il volume con me, ma nel panico della fuga avrò finito col lasciarlo cadere senza rendermene conto. Ho cercato quel libro ovunque, in ogni libreria e biblioteca d’Italia, sulle enciclopedie e i giornali prima e su Internet ed eBay negli ultimi anni. Se qualcuno ne possiede una copia mi contatti, per favore.