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La sepoltura

I ciliegi erano fioriti, le ciliegie erano finite, il suo tempo era terminato. Girò la clessidra sul caminetto con la sola mano che aveva. L’altra gliel’avevano amputata in guerra, una delle tante che aveva combattuto. Gli zuccheri erano stati il suo nemico, uno di quelli difficili da stanare, ce l’aveva nel sangue. Aveva provato ma non poteva fare a meno di loro. Ora che Marco se n’era andato, Maria era rimasta col caminetto senza fuoco, la vigna senza contadino. Andò vicino alla finestra e guardò l’appezzamento che avevano ereditato anni prima. La cenere nel camino si era via via ammucchiata. Cenere alla cenere, polvere alla polvere.

Se lo era ripetuto  mentre tirava addosso a Marco le palate di terra. La stessa che da sola aveva picconato, estratto, ammonticchiato, mentre Marco aspettava paziente in casa, ormai cadavere. Il cielo era nuvoloso, grigio, basso, pareva poggiato sulla sua schiena mentre scavava. Il gatto le aveva girato intorno tutto il tempo, ogni tanto miagolava. Intorno non c’era nessuno. I villeggianti non sarebbero arrivati che tra qualche mese, era solo Aprile. Il ciliegio era quello spurio piantato da Marco, fioriva e portava frutti prima di ogni altro. Un innesto di sua invenzione, chissà come lo aveva creato. Non gli chiedeva mai niente, lo seguiva, faceva ciò che le diceva, andavano d’accordo. L’accordo, per Maria, era di non litigare.

Alla fine aveva poggiato piccone, pala e zappa vicino alla carriola. Era andata vicino al letto. Aveva tirato giù il cadavere, lo aveva trascinato fuori. Non era già più Marco per lei. Era una cosa da togliere da lì, da seppellire, sperando che nessuno se ne accorgesse. Non era facile fare niente, per lei, con una mano sola e una protesi di legno a cui non si era mai davvero abituata. Lei non c’entrava con la morte, ma sicuramente avrebbero sospettato di lei, ne era certa.

Si era levato un venticello freddo, Maria si abbottonò il vestito fino al collo. Anche se muovendosi aveva quasi caldo, l’aria fredda le metteva le mani addosso. Non c’era Marco a scaldarla, l’abbracciava sempre quando la vedeva infreddolita. Era stato un brav’uomo, qualunque cosa significasse. Maria ripeteva a volte delle frasi, nella sua testa, senza ben sapere perché. Era molto intelligente, ma non ne era consapevole. Marco era stato il primo a farle capire che non era solo una stupida contadinotta. Per quanto lei non si aspettasse di essere trattata da persona, Marco le aveva fatto sorgere il dubbio di non essere così tonta come le avevano sempre detto a casa. I genitori erano morti da qualche anno, non avevano mai visto Marco di buon occhio.

«Quello ti riempie solo la testa di stupidate, la terra dovete lavorare, e basta.»

Marco le spiegava molte cose e altre no, Maria non sapeva in base a cosa lui decidesse. Spinse il corpo con garbo nella fossa, fece un rumore che le fece drizzare i capelli. Era come se adesso, con quel tonfo, avesse realizzato che Marco sarebbe sparito per sempre là sotto. Si inginocchiò sul bordo, guardò il cadavere sbilenco, era caduto di lato, rigido, doveva raddrizzarlo? Che importanza poteva mai avere?

Il grido di una civetta o un’auto lontana, era impaurita, perché? Al punto da non sapere distinguere due suoni tanto diversi? Forse non era né l’una né l’altra, forse era Marco che le chiedeva di posizionare per bene il suo corpo nella fossa. Scese, lo mise a posto, gli fece una carezza, il viso era freddo, aveva un brutto colorito. Si girò per risalire. Faticò parecchio, una sola mano buona, la terra franava lungo i bordi, più cercava di arrampicarsi più restava dov’era. Allora cercò di scavare con le mani, quella vera e quella finta, una specie di via per ridurre il dislivello. Il gatto nel frattempo si era affacciato e miagolava.

«Ma non vedi che sono in difficoltà? Hai fame, ho capito, e aspetta.»

Continuò a miagolare. Il sole era ormai tramontato, la luna era nascosta dalle nuvole, la giornata, che già era scura, diventò buia del tutto. Si fermò a riposare e poi decise che sarebbe uscita a tutti i costi da quel fosso. Saltò, scavò, usò la protesi come una paletta, alla fine riuscì, strisciando e scavando, a tirarsi fuori. Era completamente piena di terra, le mani, lo spazio fra protesi e polso, la faccia, i capelli, l’interno dell’abito, le mutande, il reggiseno. Andò in casa, accese la lampada a olio, la portò con sé e tornò da Marco. Guardò dentro la buca, era ancora lì.

«Dove altro doveva essere?»

Il gatto insisteva. Fece ancora una pausa, tanto Marco non sarebbe scappato da nessuna parte. Gli diede da mangiare per far cessare il miagolio e tornò a finire la sepoltura. Avrebbe dovuto chiamare il cimitero, ma non sapeva se a Marco avrebbe fatto piacere e comunque non avevano soldi per la funzione e per il loculo e tutte quelle cose che bisogna fare quando uno muore. Prima di finire di coprire del tutto, slegò la protesi, la poggiò a terra, la ricoprì, schiacciò per bene la superficie, picchiando con la pala di piatto.

«Addio.»

Tornò in casa. Ora che Marco era morto e sepolto, poteva sedere vicino al fuoco, aspettare l’alba o stare in piedi tutta la notte. Era un brav’uomo, ma era stato lui lo zucchero che le aveva amputato la mano. Lo sapevano tutti e nessuno aveva fatto niente, nessuno era intervenuto per aiutarla, salvarla, denunciarlo. Le mogli tacevano e i mariti approvavano, era così lì da loro. Chilometri e chilometri di campagna, strada sterrata battuta da cavalli, niente altro che vigna da coltivare e altre casupole come la sua, miseria, famiglie, povertà, bambini affamati.

Lei per fortuna non ne aveva avuti. Marco diceva che era colpa sua, era una brava moglie ma non sapeva fare bambini. Marco pensava che il Signore si sarebbe preso la sua mano e gli avrebbe dato in cambio un bambino. Maria avrebbe voluto chiedere al Signore cosa mai se ne sarebbe fatto della mano di una contadina. Non lo chiese né a Lui né a Marco. Sapeva che avrebbero pensato che Marco lo aveva ucciso lei, per vendetta. Ma si sbagliavano. Lei stava bene con lui, era meno peggio di suo padre, meno violento di sua madre, peccato per la fissazione dell’avere un bambino.

L’altra mano gliel’aveva lasciata, almeno per cucinare e pulire. Poi, quando si era reso conto che con una sola mano ogni cosa da fare richiedeva molto più tempo, le aveva fabbricato la protesi. Era bravo a intagliare il legno, spesso portava anche in fiera gli oggetti, ricavava del denaro per l’olio da usare nella lampada, o del frumento. Gliel’aveva anche verniciata, bella lucida, con i nodi dell’acero lasciati ben in vista. Le dita rigide, sinuose, come quelle di una Madonna senza bambino, disse mentre gliela fissava al polso con lo spago. Quando si accorse che la corda le segnava la pelle fino a farla sanguinare, cercò delle cinghie, larghe, di cuoio, che non incidessero la carne. Maria aveva imparato col tempo a legarla e slegarla da sola.

Guardava il vuoto lasciato dalla mano finta come una cosa che non le apparteneva. Adesso che Marco non c’era, guardava il camino, le ombre della lampada ballavano e il vento fuori muoveva i rami degli alberi. Il gatto si era placato, le stava in grembo, aspettando carezze che non arrivavano. Quando l’olio lasciò al buio la cucina, Maria si alzò. Andò verso la camera da letto. Si spogliò. Si infilò sotto le coperte. Per oggi non aveva altro da fare, la sepoltura era a posto.

5 commenti su “La sepoltura”

  1. Stra bello, ogni frase, ogni parola trasmette bene, fa’ intuire la grande unione che c’era tra lei e Marco. Sei tanto brava nel descrivere i sentimenti, le persone ed, anche, a rendere manifesta la cattiveria di chi sa solo giudicare.

  2. Pingback: La sepoltura – Gargolla editrice Rivista – Occhio Sul Naso

  3. È una bella storia che descrive la storia di una coppia comune e realistica, non come quelle in cui l’amore è immenso e vincente o dove c’è solo dolore, spesso è un miscuglio dove in realtà cerchi di fare la media tra il bene e il male.

    1. Grazie tantissimo Giulia, per il tempo dedicato alla lettura e per il commento, grazie per il tuo sguardo e per la condivisione del tuo pensiero

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