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La Carovana di Fra Diesis

I più tra noi venivano dalle campagne, da Adernò e Castigghiuni, ma ve n’erano molti anche da Catania. Ci aggiravamo da mesi in terreni desolati e paesi fantasma, muniti solo della nostra fede e di fruste di fortuna. Le spalle scorticate dal cuoio, i denti devastati dalla fame, gli occhi affossati dal sonno scarso e funestato dagli incubi. Ogni mattina che il Signore mandava in terra la passavamo a contarci ed eravamo sempre di più. Poi ognuno si allontanava per pregare in solitudine, mentre invece l’unica preoccupazione era quella di controllarsi da cima a fondo per identificare il sorgere del primo bubbone, la condanna che si faceva materia sotto la pelle, il sangue che si gonfiava fino a marcire e diventare pietra dura accoccolata appena sotto la prima scorza. Gli appestati li portavamo con noi, sebbene a distanza. Questo almeno finché non giunse tra noi Fra Diesis, mandato dal Signore per separare il grano dal loglio. Da quel momento fummo chiamati la Carovana, mondi dalla peste e perciò strumenti di Dio per la salvazione.

Signuri Gesùcristo, allo primo jornu dell’autunno trovo i vostri fideli, sanguigni e pentiti, all’angolo dello crocicchio che porta ad Aci. Bevono la vostra parola e pendunu dalle me labbra, in fine seguono me con la promessa dello riscatto della vita eterna, in nomine dello Pater vostro.

Io non volevo seguirli né avere a che fare con quel maliditto frate che si professava prete. Glielo dissi a mia moglie, ma lei non mi ascoltò perché le sue orecchie oramai erano state conquistate dal frate a tal punto che gli rivelò la mia arte e l’uomo di Dio rispose che un pescatore era proprio ciò che gli serviva. Marciammo con la Carovana, diretti a nord, verso Gitala. Accogliendomi, Fra Diesis seppe solo sussurrarmi all’orecchio che tutto ciò che avrei dovuto fare per lui era ripetere ciò che avevo fatto per tutta la vita. Ringraziai il cielo per aver fatto crescere il mio bubbone sotto l’ascella, in un punto nascosto, dal momento che Fra Diesis aveva iniziato a lasciare indietro tutti gli appestati.

Signuri Gesùcristo, voi sapite che non mi movo per piccioli né per gloria, ché chella è solo vostra secula seculorum e del vostro Pater e della Palomba che v’accompagna. L’attrovatura che mi rivelaste in sogno jo ormai la vido notte e giorno, e conduco la vostra mandria verso il tesoro dello Monte Scuteri e verso la fine della pestilentia.

Arrivammo sul monte prima dell’alba, in una notte di luna piena, come richiesto dal rito. Io non ci vedo dalla nascita. Che fosse ancora notte lo dedussi dal sirino sulla pelle. Tutto era pronto. I pesci pescati qualche ora prima, chissà come, erano ancora vivi. Fra Diesis lo prese come buon auspicio e mi disse di tenermi pronto. Frattanto alcune donne finirono di tessere il tovagliolo su cui avremmo dovuto mangiare i pesci dopo averli cotti su un fuoco sprigionato da mazzetti di erica raccolta sulla spianata del monte battuta dal vento. Io apersi gli occhi, lasciai che il fumo del fuoco li investisse e, tra il rameggiare di venuzze ormai morte, vidi la Madonna coperta di pustole e infestata dai bubboni, e piansi.

Signuri Gesùcristo, allora voi m’ascoltate! Ego vossia ringrazzio assai per chista binerizzione, di chista vergine che m’avete mannato acciocché terminassi la missione. La tengo allato a me, legata al cordone custode delli miei voti.

La barca era marcia. Tredici volte percorremmo avanti e indietro quello stretto braccio d’acqua dolce, nel fondo della caverna. Per tredici volte dovetti spergiurare la mia verginità ad alta voce, tra l’espressione severa dei miei compagni e lo sguardo fanatico di Fra Diesis. Non aveva accettato di buon grado il mio chiamarmi Maddalena, ma non vi era più tempo per battere le campagne e cercare una vergine che non portasse il nome di una meretrice. Quando tutti fummo sulla riva opposta, il frate ci chiese di pregare in silenzio, proseguendo lungo la grotta. Fra Diesis ci aveva detto che solo la mia verginità ci avrebbe fatto incontrare la principessa, l’unica che avrebbe potuto salvarci dal morbo. Io sulle labbra avevo ancora il sapore di Michele, il mio arcangelo, e tra le cosce un brivido echeggiava ancora.

Patreterno, lo vostro devoto frate vi chiama e vi chiede perdono. A nulla valse la mea fede, di fronte alle mancanze, alle reticenze e ai peccati di chi m’ha seguito fino a chesta caverna. Adesso, nello cuore dello mondo, lo vostro devoto frate impreca e bestemmia perché lo nostro fallimento è stato massimo. Nessun tesoro vi era, ma solo un cavallo parlante che ci ha dato la novella: quattrocento anni abbiamo passato quaggiù, lo morbo ha lasciato cheste terre ma non i nostri corpi. Resuscitare è cosa da Lazzari e Gesùcristi con li palmi trafitti. A noi derelitti non è concesso. Solo uno di noi scenderà alla valle degli omini e non farà più ritorno. Solo a uno di noi è demandato il compito di ammazzarsi fuori da chesta grotta, acciocché lo morbo non impesti di nuovo l’aria.

Sarò io? O sarà la finta vergine? Oppure lo cieco, lo pescatore, la filannera, lo carrettiere, l’usuraio, lo ciabattino, lo domineddio? Tutti impestati e che vossia possa maledirci secula seculorum. A chi toccherà chesta scelta infame; se tornare a respirare lo profumo dello pane o morire da solo soffocato dalle lacrime?

Il racconto La Carovana di Fra Diesis è apparso per la prima volta nel volumetto digitale Cronache dalla quarantena siciliana edito nel 2020 da Rossomalpelo Edizioni.

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