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Monte Spina

Luna abitava in Vicolo Stretto 66. Da quando i genitori erano venuti a mancare era stata gettata da un istituto all’altro come una reietta, in ogni paesino, diramata su fili di trame destinati a lei soltanto. Aveva conosciuto più case che esseri umani; ma ovunque andasse la presenza non era gradita e le famiglie affidatarie la rispedivano al mittente, e poi a quello precedente e così ancora. Fu sua zia vedova a salvarle l’esistenza: il desiderio d’averla con sé era grande già dall’inizio, ma non abbastanza da superare la malattia; così i medici, gli psicologi, gli psichiatri, i reparti s’erano schierati contro per impedirle l’affido. Ma alla fine, nessuno sa come, c’era riuscita. Così un pomeriggio di settembre inoltrato, l’aveva accolta con piacere tra le mura di casa.

Trascorso un po’ di tempo insieme, la zia s’accorse dell’intelligenza folle della nipote e della sua ossessione per le pietruzze celate nel cassetto, per la terra umida e i sassi accovacciati sotto gli alberi di pesco. Luna era sprecata a star lì sdraiata, a contar con le dita e gli occhi, a imparare colori mai uditi e nomi non ancora inventati. Così un giorno la zia segnò i risparmi, e spinse la nipote a gettarsi in quel mondo mistico, che a detta sua ce n’era tanto bisogno. La giovane, colta dallo stupore e dal desiderio, decise di intraprendere gli studi e cominciò a frequentare la facoltà di Geologia all’Università Poscadoro. Di quei tempi pochissimi privilegiati avevano l’opportunità di frequentare edifici simili. Bussava la guerra alle porte e nelle strade a poco si pensava, se non a mangiare e a salvarsi la pelle. Ma a Luna non era andata poi così male, ché la zia aveva tanti soldi quanta pazzia in corpo. E così gli orrori passati della vita vennero dimenticati, e nuova luce si gettò sul suo mondo. Passava il tempo in laboratorio ad analizzare minerali o in mezzo alle rocce, a raccogliere campioni ai piedi di Monte Spina, un’altura aspra che distava pochi chilometri da casa. Per raggiungerne le pendici, Luna andava in calesse col professore o usava i cavalli della zia dal momento che lei non aveva bisogno di spostarsi mai da nessuna parte; faceva la sarta quando la mente era lucida, e il restante tempo si prodigava al dondolo fuori in giardino, parlando col vento o a qualcosa che nessuno vedeva. La sua camera era piccola e antica. Quando a Luna capitava di entrarci ne rimaneva affascinata: il pavimento era un tappeto di gomitoli, e sui comodini o appesi come trofei al muro c’erano le ceste con gli spilli, gli aghi e i triangoli di stoffa.

Una mattina Luna si svegliò, illuminata da un ricordo: la vedova compiva cifra tonda. L’accolse con un bacio e promise che sarebbe tornata nel primo pomeriggio. Di venerdì il laboratorio era chiuso, così si recò a Monte Spina. Un’improvvisa febbre notturna aveva costretto il professore a letto e così si trattò della prima escursione in solitaria. Mentre, stretta in abiti da cavallerizza spronava Reinar, il baio della zia, al galoppo. Luna s’accorse che il tempo stava per cambiare. Il cielo, limpido fin dalle prime luci dell’alba, venne avvolto da nubi nere come la pece. Con una mano la ragazza afferrò il vento gelido, annusando l’aria che già sapeva di pioggia.

Una volta legato Reinar, si strinse nella giacca pesante. Era un freddo anomalo, quello, non di stagione; si chiese cosa avrebbe portato la sera. Lungo le pendici del monte, la zona di ricerca era delimitata da spessi pali di legno e una rete dai buchi larghi, morbida, come quelle dei pescatori, priva di metallo per non attrarre fulmini. Il lavoro ripetitivo la rilassava, meccanico come piaceva a lei. Quando intravedeva qualcosa di interessante, rompeva piccoli frammenti e li infilava in una provetta. Non si allontanava mai oltre la recinzione, perché il professore aveva raccomandato di stare allerta. Monte Spina non era un’altura qualunque, ma un mostro possente di origini vulcaniche, con la bocca colossale e sane radici pronte a imprigionare, esistevano luoghi inagibili e alcuni punti mai scoperti, con terreni friabili e magmatici come sabbie mobili.

La prima goccia arrivò sulla fronte, poi un’altra e un’altra ancora, finché non furono migliaia a colpirla, dapprima leggere come pioggia che si fa conoscere. Ma qualcosa non tornava. Luna gridò tirando la pelle del volto, chiudendo gli occhi e inveendo al cielo, pregando di smettere. Il tempo si dilatò e non seppe mai quanto trascorse. Svenne, dormì, provò dolore, poi rinvenne, sporca di terra bagnata sulla tempia, un piccolo bozzo e le guance che bruciavano alla follia. In lontananza il cavallo l’attendeva intrepido, scalciando con rabbia e nitrendo come se lo stessero fulminando. La corda tirava e il paletto stava per sganciarsi dal terreno ormai paludoso. Si alzò con quanta fretta le permetteva il corpo e in quell’istante una crepa apparve di fronte a lei, a una decina di metri: uno squarcio, una cavità naturale che non aveva mai visto prima. Si avvicinò piano e vide che era buia e stretta. La roccia mostrava una tinta scarlatta, incombente come un tramonto, ruvida, con intagli bizzarri e geometrici. Provò a sfiorarla, ma la pietra era rovente. Respirò affannata, tirando via la mano: sulle dita, i segni della scottatura.

Nel pomeriggio fischiò una trombetta; la zia, con ghirlande al collo e un cappellino triste in testa, abbracciava l’età del centenario. Si erano messe comode in salotto a sorseggiare tè. Di tanto in tanto Luna sorrideva, per poi perdersi in un mondo più cupo di quello; c’era un silenzio inusuale. La vedova, sporca di pan di spagna, si passò il tovagliolo per poi tornare sulla nipote. Ma, quando se ne accorse, lo sguardo si fece di pietra. Che non l’avesse notato prima era colpa della malattia che la spediva a parlare coi fantasmi.
«Cos’hai fatto sulla faccia Luna? È successo a lavoro?»
Luna strinse la tazza, poi la posò sul tavolo e addentò una fetta di torta.
«Sono caduta in montagna, nulla di ché.»
«A Monte Spina? Eri sola?»
«Sì.»
«Follia!»
«Il professore aveva la febbre.»
«Non si lascia una ragazza così giovane da sola alle pendici di un mostro come quello. E poi di che caduta vai parlando? Hai la faccia di fuoco, bambina mia, sei piena di macchie. Che è saltato in mente alla tua pelle?»
Luna si massaggiò il volto; la donna allungò lo specchio del marito e glielo mise davanti.
«Guardati. Non ti eri ancora vista? In bagno o per strada, su una vetrina. Che orrore è mai questo?»
La ragazza strinse gli occhi e scosse la testa.
«Zia, non c’è nulla che non vada.»
L’anziana posò il piattino e le si mise accanto, ma quando vide riflesso nello specchio il volto pulito e perfetto della giovane, mise le mani alla bocca.
«Io so cosa ho visto, io…»
«Ho un livido qui, sulla fronte, nient’altro.»
«Ma non senti bruciare, prurito, non hai avvertito nulla stamane?»
«Ricordo solo che ha iniziato a piovere e sono svenuta; quando mi sono svegliata bruciava un po’ la pelle. La pioggia sembrava calda. Ma è scomparsa subito, la sensazione.»
La vedova le afferrò il mento. Le macchie erano scomparse. Una visione, forse. Tornò a fissare il dolce, come morta dentro.
«Zia… Possibile che su Monte Spina ci siano zone dove la roccia brucia come il fuoco?»
La donna si irrigidì: la guardò, incrociando le gambe, per poi spostare lo sguardo verso il soffitto.
«In Monte Spina pulsa il cuore di Efesto, quello è certo. Ma nonostante le origini vulcaniche, all’esterno non ha mai avuto roccia calda; tuo zio faceva spesso escursioni, e non esiste monte più fresco e rigido di quello. Anche con il sole più feroce, la sua terra e i suoi detriti non assorbono calore. Quella è una caratteristica innata, ancora adesso inspiegabile.»
«Eppure so cosa ho sentito.»
La zia sorrise, alzando le spalle.
«Sei tu la geologa, tesoro.»
L’anziana tremava e con lei la sua voce; gli occhi si spensero come involucri vuoti. Era tesa, per cosa non era chiaro. Si tirò su e andò in cucina coi piatti.
Luna le si piazzò davanti, bloccando la porta.
«Zia, dimmi cosa ti preoccupa. Non mentirmi, per favore.»
La donna spaventata provò a negare, ma alla fine cedette. La nipote la fece passare; lei appoggiò le mani sul lavandino e iniziò a piangere.
«Da piccola mi raccontarono una storia su Monte Spina. Si dice vi sia, nascosta fra le immense rocce, una crepa rossastra che appare ogni centoquarantatre anni; non è un ingresso come altri, ma l’entrata che conduce all’inferno.»
Luna ascoltò scettica, stringendo le braccia al petto.
“… Lingresso saprirà, se una giovane donna la soglia varcherà. Così linferno la ingoierà e dopo due giorni al sole lanima in terra tornerà, e vagando senza meta la sua condanna sarà”.
Dopo aver recitato quelle parole, la vedova svenne e Luna impaurita la trascinò subito a letto. Pochi minuti e il respiro era tornato regolare; la lasciò lì, con una pezza bagnata sulla fronte. Stava per chiudere la camera, ma la donna la richiamò, sollevò l’indice e lo puntò su Luna, come fosse al cospetto di uno spirito maligno.
«Non andare più là, Luna. Ascoltami. Tuo zio ne ha fatto una malattia e ora viene a trovarmi da morto per pentirsi. C’è crepato tra quelle rocce dannate. Che tu sia dannata, se andrai ancora.»
Alla giovane fremeva il cuore. Non dava interesse alle credenze. Sentì invece che forse aveva fatto una scoperta eccezionale.

La sera giunse in fretta. Luna fu costretta a tirare Reinar che con furia aveva intuito: l’animale tentava invano di liberarsi, ma la giovane ebbe la meglio e il cavallo s’arrese. In viaggio, Luna assisteva alla bellezza del monte che si faceva immenso e orgoglioso via via che avanzava. Le luci soffuse svanirono, i piccoli lumi rimasti alle spalle sfarfallarono per poi spegnersi del tutto. Da qualche minuto l’aria era satura di elettricità, ma il temporale era ancora distante; quando Luna si fermò alle pendici del monte, il cielo le parve più nero e arrabbiato che mai.

Non ti disturberò oltre.

Accese la lanterna e si avviò alle zone di scavo. La pioggia aveva deviato un po’ i percorsi. Sui costoni predominava un aspetto diverso, come se qualcosa l’avesse sferzati, graffiadoli a fondo. Infilò i guanti per non scottarsi e avanzò. Il tempo non era più consentito, non quello reale: non seppe mai se impiegò una o due ore, se fossero solo dieci minuti, poi finalmente la spaccatura apparve. Prese coraggio e si avvicinò. Non appena ne sfiorò il limitare, avvertì alle sue spalle delle voci intime e profonde. Erano molte, ma non troppe da pensare a un gruppo numeroso. Si voltò puntando la luce. Soltanto il buio la squadrava dall’alto al basso. Quella cadenza sonora ricordava le preghiere dettate a messa, quel sibilo che si crea nel silenzio costretto e si professa. Era sua zia, che le aveva annebbiato la mente con le dicerie, nient’altro. Oltrepassò la soglia e rimase immobile, in attesa. Sollevata battè le mani e indicò l’uscita; laggiù da qualche parte sua zia riposava a letto.

Dannata sarai tu e le tue superstizioni.

Illuminò attorno a sé: l’interno somigliava a una comune grotta, anche se la temperatura era davvero elevata. Cominciò a muoversi nei dintorni, aprì la giacca, toccò il collo, sudava già all’impazzata e non aveva compiuto che pochi metri. Ma tutto venne ripagato dalla meraviglia degli intagli, dai disegni primitivi scolpiti, e dal terreno che pareva battuto apposta per essere calpestato. Era opera di uomo questa, non c’erano dubbi. Lo sguardo si colmò di meraviglia. Camminò finché non udì ancora quelle voci al fondo della grotta: il coro sacerdotale, la messa che stava iniziando. Come intorpidita, le seguì, lasciando cadere la lanterna.

Quella notte trovarono la zia che dondolava in giardino, con le braccia attorno alle ginocchia a ripetere una litania e a sgridare l’aria. Pianse per due giorni e si ammalò per il dolore. Luna non aveva fatto ritorno. La cercarono ovunque a Monte Spina, ma il pertugio che tanto gridava la vedova era scomparso. Le ricerche si spostarono altrove, nei dintorni. Poi, come tutti i casi di scomparsa, sarebbe morta in archivio e la gente avrebbe dimenticato.

Fu la notte del terzo giorno. La zia ancorata a letto – col marito che non le dava tregua e i fantasmi che l’assalivano – cercava di addormentarsi, quando un caldo tremendo la pervase, insinuandosi come carbone rovente. Si alzò piano, con la testa in fiamme, e aprì le finestre. Chiese al cielo di lasciarla in pace. La neve le colpì il volto. Fuori c’era un tempo folle, non di stagione. La gente tentava di ripararsi dal soffio del Nord; eppure lei non sentiva freddo: quel calore lo avvertiva nelle membra come fosse estate. Sbirciò la strada e quel che vide le strinse il cuore. S’affacciò di più, sventolando le mani, e cominciò a chiamarla, con la voce alta rotta dal pianto.

Luna camminava, errabonda e triste; avanzava invisibile agli altri, avvolta dalle fiamme. Per un istante si fermò e le sorrise. Poi, riprese il suo viaggio senza ritorno.

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